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Il Re di Caserta
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Oscar Schmidt era un'ala flessuosa dal carisma imponente. Mieteva decine e decine di punti a partita. Fu lui a collocare una città lontana dal grande circuito metropolitano sulla carta geografica della pallacanestro italiana, e poi europea. Dire Caserta era dire Oscar .

Bogdan Tanjevic l’aveva già visto. Per questo andò da Giovanni Maggiò e gli chiese di prendere quel ragazzo che, disse il coach, "piange e segna". La definizione era romantica, appresa sul campo, suo malgrado, da Tanjevic, quando il suo Bosna Sarajevo aveva perso, da favorito, la finale di Coppa Intercontinentale contro i brasiliani del Sirio. A San Paolo i pronostici furono ribaltati dai tiri da ogni posizione di un ragazzo poco più che ventunenne, uno che esultava come un posseduto appena vedeva che la retina si gonfiava.

Tanjevic, che era già un santone del basket, dopo aver costruito il miracolo del Bosna e condotto la nazionale jugoslava, aveva accettato le offerte di un club di A2, la Juvecaserta, convinto dall’ambiziosa visione del presidente, il cavalier Maggiò. Iniziarono a parlare della squadra da comporre per raggiungere la promozione.

Il primo nome che fece Tanjevic fu quello di Oscar Schmidt: "Me lo porti qui", raccomandò "Boscia" al patron.

Era il 1982. Tre anni prima c’era stata la partita di San Paolo. La storia aveva cominciato a cambiare allora.

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Dire Caserta era dire Oscar. Adorato dalla gente, fu lui a collocare una città lontana dal grande circuito metropolitano sulla carta geografica della pallacanestro italiana, e poi europea.

In Brasile l’avevano soprannominato "A Mão Santa ", la Mano Santa. A Caserta sarebbe divenuto presto "O Rey ", il Re. Oscar è stato una categoria dello spirito. Mieteva decine e decine di punti a partita. Immarcabile, era un’ala flessuosa dal carisma imponente. Attorno a lui cresce una covata di ragazzi destinati a essere campioni.

Il primo a spiccare è Ferdinando Gentile, sguardo da poeta e volto da pugile, che da Oscar imparerà presto un’arte: non avere mai paura di prenderti un tiro decisivo. La grande parabola della Caserta del basket nasce con loro, ed è una pesca miracolosa. Saranno, in realtà, più le finali che le vittorie a descrivere l’epos di una squadra che spostò  sotto Roma il baricentro dei canestri d’Italia. Eppure, nel dolore di sconfitte giunte sul gong di stagioni mitologiche, Oscar era il sorriso di un popolo, e pure di più per l’incompiutezza dei successi. Nell’ordine: due finali per lo scudetto perse con Milano, una di Coppa Korac con Roma, un’altra di Coppa Italia con la Virtus Bologna, e poi una Coppa delle Coppe sfumata di fronte al Real Madrid. Arrivaci, però, in fondo, e fallo alla maniera di Oscar: sempre all’attacco, un formidabile accentratore di energie che timbrava con regolarità la soglia dei 40 punti e si spingeva con frequenza magnetica verso e oltre i 50. Di lui si erano accorti anche in NBA, in tempi in cui gli stranieri non erano una presenza abitutale: al draft del 1984 viene scelto dai New Jersey Nets.

Oscar, però, ha una seconda patria, l’Italia, e una capitale del cuore, Caserta.

Certi amori non finiscono.

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Tanjevic era già andato via, al suo posto c’era un figlio di Caserta, che del guru Boscia era un allievo prediletto: Franco Marcelletti. Fu con lui che si spezzò l’incantesimo, con il primo titolo per la Juve, la Coppa Italia del 1988. Oscar era sempre più Mano Santa e aveva pianto, come tutta la città, per la scomparsa di Giovanni Maggiò, il patriarca, stroncato dalla leucemia pochi mesi prima. Vedi, il destino. Il presidente la guardò da lassù, la vittoria dei suoi ragazzi. Marcelletti, un professore di raffinata cultura, aveva forgiato Gentile nelle giovanili, e con lui pure una guardia elettrica, fantasiosa, un secondo dioscuro: Vincenzo Esposito. Il 113-100 con cui Caserta sconfisse in finale Varese lanciò in orbita la squadra.

 

Quando, un anno dopo, ci fu la sfida al Real, in Coppa delle Coppe, il duello fu deflagrante: Oscar contro Drazen Petrovic. Ovvero, il Mozart dei canestri per chi era sedotto dalla sconfinata genialità del suo talento, oppure il Diavolo di Sebenico, secondo la vulgata di quelli che ne pativano la personalità intrisa di mistico agonismo, il marziale senso del gioco che conduceva Petrovic a esprimersi sempre con uno spietato furore. Quella partita, giocata ad Atene, nell’infuocato palasport del Pireo, il vulcano dormiente che esplode durante le partite dell’Olympiakos, sarà una celebrazione del magmatico fragore del basket. Ne viene fuori un confronto che traccia il solco di un’epoca della pallacanestro: davanti ci sono due squadre che corrono e tirano, tirano e corrono, che giocano sempre in campo aperto, con dei leader che sganciano "bombe" da tempesta perfetta. E pensare che Oscar e Petrovic avrebbero potuto persino giocare assieme, se Mano Santa avesse accettato la proposta che gli aveva fatto, l’anno prima, il Real. Oscar aveva già detto di no ai Nets. Fece lo stesso con i Blancos. Dirà, intervistato dal "Corriere del Mezzogiorno", nei giorni in cui tornerà in visita a Caserta, molto tempo dopo essersi ritirato: "A casa ho ancora il contratto offerto dagli spagnoli per andare a giocare con Petrovic. Non sono andato via per Caserta e per il cavaliere Maggiò. Meno male poi che non sono andato a giocare con i New Jersey Nets in Nba, altrimenti non avrei più giocato con il Brasile. Sono state le cose più belle che ho fatto nella mia vita. E che mi hanno fatto capire che non si può comprare nessuno con i soldi, ci sono cose più importanti nella vita". Invece, al Pireo, erano, lui e il "Mozartdiavolo", sfidanti.

Fu subito leggenda.


Le statistiche non sono marionette, non possono essere mosse a seconda delle volontà dei pupari. La Caserta, sponsorizzata Snaidero, e il Real Madrid, in quella notte greca, totalizzarono 230 punti. Un record per la finale di una coppa europea. Petrovic ne fece 62. Oscar 44. Il Real Madrid allineava, al fianco di Drazen, altri campionissimi: Ferran Martin, "Chechu" Biriukov, Johnny Rogers. Caserta rispondeva con Gentile, che al Pireo fu il terzo miglior marcatore, con 34 punti realizzati, 5 su 10 da tre e 10 rimbalzi, un’enormità per un playmaker, Esposito e un quintetto giovane eppure maturo. Non fu sufficiente. Il Real vinse per 117-113 al supplementare, dopo che alla sirena dei 40’ regolari un presunto fallo di Biriukov su Gentile, che sarebbe valso i tiri liberi del sorpasso, era stato cancellato dopo un consulto tra gli arbitri e gli ufficiali al tavolo, che considerarono che l’intervento fosse avvenuto a tempo scaduto. Nel momento in cui il Madrid alzò la Coppa, Oscar iniziò ad allontanarsi da Caserta.

Avvenne nel 1990. Una stagione di illusioni. In Coppa Korac l’eliminazione ai quarti. In campionato, il quarto posto e poi il ko in semifinale, con la serie con la Scavolini Pesaro persa alla "bella". Cominciarono a girare certe voci su Caserta che doveva rinunciare a Oscar per vincere. Troppo ingombrante la Mano Santa. Bisognava cambiare gioco, non dipendere da un immenso fuoriclasse che, però, rischiava di divorare il resto della squadra.

Gli dissero che non c’era più spazio per lui. Fu un colpo tremendo per O Rey, che scese in A2, a Pavia, e fu subito promosso, com’era avvenuto quando era arrivato a Caserta. La Juve, marchio Phonola sulla maglia, a dispetto di ogni supposizione, ebbe ragione: conquistò lo scudetto, in capo a una finale pazzesca, in cui piegò Milano, sbancando in gara 5. Enzino Esposito, quel giorno, si ruppe un ginocchio e rimase a seguire la partita da bordo campo, con i denti stretti per la sofferenza. Nando Gentile incendiò il canestro di Milano.

I pargoli di Oscar avevano vinto, l’Italia del basket era ai loro piedi. La Mano Santa, nel 2016, ricordò con rimpianto l’addio a Caserta, parlando con "Il Mattino": "Il più grande dolore, mi sono sentito tradito. Non sento quello scudetto mio, non l’ho vinto. Sono apparso come la parte negativa della squadra. Nando ed Enzo erano giovani e facevano errori da inesperti, la Juve non contava niente e ci hanno rubato almeno uno scudetto e una Coppa Italia. Nella finale di Coppa delle Coppe dovevo stare dall’altra parte, con il Real Madrid, e forse Caserta non sarebbe neanche arrivata a quel punto". Anche O Rey può piangere, come faceva ad ogni tiro realizzato, a San Paolo, nel 1979. Boscia Tanjevic aveva visto la Luce e l’aveva portata in Italia.

Giù al Sud, senza perdere la tenerezza: era semplicemente Oscar Schmidt e le sue lacrime erano canestri.

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