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I padroni del vapore

SIX NATIONS

di Francesco Costantino Ciampa

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Torna il Six Nations. Ci aspettano gli inglesi.
Partiamo da Leicester, dal cuore rugbistico dell’Inghilterra, per cercare di capire perché non li abbiamo mai sconfitti. E non li sconfiggeremo mai.

«Tigers…Tigers…Tiiiigers…Tiiiiiigers». Welford Road, Leicester.

La casa delle Tigri, il posto più magico in cui vedere una partita di rugby.

Certo, tutti conoscono la favola di Ranieri e della squadra di calcio di questa città. Ma quanti sanno che l’ovale che comanda in Inghilterra passa necessariamente da qui? La prima volta ho volato su Stansted e, dopo aver affittato una macchina, ho seguito la mappa cartacea (mamma che antico!) per raggiungere questa orribile cittadina a nord di Londra.

Giunto nel territorio comunale ho messo a dura prova la mia ignoranza indirizzandomi con i cartelli recanti un pallone da football. «Beh – pensai – in Heineken Cup giocheranno nello stadio del calcio». Sì, certo.

Arrivato nei pressi dell’impianto notai che i tifosi non avevano proprio i colori rosso-verdi dei Tigers quanto piuttosto un blu che poco aveva a che fare con quanto immaginato. «Sono un giornalista italiano, sono qui per la partita col Calvisano».

Il poliziotto sorride e, pietosamente, mi dice che quello è il Walker Stadium, trattasi di calcio. «Ma come? Calcio e rugby nello stesso giorno e alla stessa ora?». «Purtroppo sì. Questa è una vera disdetta per la squadra di calcio…».

Perplesso, curioso, umiliato. Guido fino Walford Road e leggo la fatidica scritta: SOLD OUT.

Contro il Calvisano, contro una squadretta italiana, contro una banda di disperati da settanta punti di scarto a partita.

Benvenuti a Leicester, capitale del rugby inglese. Almeno per me.

Entro di corsa, pubblico che ruggisce e Calvisano che sembra tenere il campo.

Finirà 63-0, come previsto.

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Alla fine della partita subisco la magia del posto.

I giocatori, zuppi d’acqua (lì piove sempre) si fermano a bordo campo per parlare tra di loro.

Guadagnano lo spogliatoio con calma e vengono buttati fuori dalla pancia della tribuna centrale per subire un nuovo abbraccio dei loro sostenitori. Tutto con un educato entusiasmo. Con quella serenità tipica di uno sport che hanno veramente inventato loro, gli inglesi.

Ho scritto il mio pezzo in una sala stampa a metà tra il legno e la leggenda. Il tutto condito da quella splendida tortina di carne che trovi in ogni dove. Sono tornato altre volte in quello stadio e, ovviamente, non ho più sbagliato impianto.

Anche se Welford Road ha subito quei continui miglioramenti che solo i Paesi civilizzati sanno imporre alla propria impiantistica sportiva. A Leicester ho visto un quarto di finale per deboli di cuore con Mirco Bergamasco in campo da una parte e Martin Castrogiovanni dall’altra. Vincono i Tigers 21-20 sullo Stade Francais e, alla fine, rivedo il presidente dei francesi Max Guazzini che mi saluta e mi dice (in italiano): «Mi avevi intervistato a Parigi qualche anno fa, giusto? Vieni che parliamo della partita». Incredibile, si ricorda di me. E nessuno ironizzi sulle note inclinazioni sessuali del buon Max…

Di sicuro quello rimane un match memorabile, con Castro che mi porta al terzo tempo post partita in una club house in cui solo chi ha una lavatrice al posto del cuore non può sentirsi minuscolo di fronte a così tanta storia.

Primo aprile 2007, come faccio a dimenticarmi di quel giorno.

Con il pilone argentino che mi fa vedere il programma degli impegni prossimi venturi sottolineando come il tutto fosse stato deciso fino all’ultimo giorno della stagione con tanto di colore del completo scelto per ogni singola sessione di allenamento. «È molto difficile che venga cambiato qualcosa di questo planning…». La professionalità portata al massimo della perfezione. Roba da Real Madrid, da Manchester City, roba da calcio. E roba da Leicester Tigers.

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Nello store dello stadio ho sempre comprato  di tutto e tutto a prezzi assurdamente bassi. Ceste piene di maglie in cui pescare le divise dell’anno a primo a quindici sterline mentre sugli appendini trovavi quelle della stagione in corso al 50% in meno. Perché? Semplice, i tifosi locali comprano ogni anno la nuova maglia in agosto, quando viene presentata. A gennaio diventa tutto vecchio e viene svenduto a quei pochi che non avevano messo mano al portafogli in estate.

La mia Inghilterra è qui, nel campionato di club. Della Nazionale potrei parlare per migliaia di ore.

Ma il fango del campo, il legno delle tribune e il profumo della birra che ho trovato nei club costituiscono un patrimonio esperienziale che nessuno potrà mai togliermi.

Città terrificanti nella loro bruttezza trovavano motivo di religioso riscatto quando si parlava di rugby.

Gloucester, ad esempio. Così brutta che Marco Bortolami viveva a Cheltenham, piccolo gioiello dall’inspiegabile allure francese a pochi chilometri dallo stadio in cui il buon Marco guidava i bianco-rossi da capitano.

Un italiano! Giusto per dire che questi non si fanno tante seghe mentali, se sei forte giochi. E se hai le palle giochi da leader. E poi Bristol sul canale con il suo Ashton Gate o i gradoni ghiacciati del Sixways Stadium di Worcester, il tifo caldissimo dei Quins allo Stoop o la religiosità del Recreation Ground a Bath (in realtà bellissima città in cui i romani hanno lasciato parecchio). L’Inghilterra è magica.

E non solo perché a Gloucester l’unica cosa da vedere era la cattedrale in cui hanno girato Harry Potter.

L’Inghilterra è magica perché ha una cultura sportiva che non possiamo capire ma solo ammirare. E rispettare.

Secondo uno studio post scolastico risulterebbe che il 50% dei top manager inglesi abbia giocato a rugby.

Questa statistica mi ha sempre colpito. Mai come per loro il rugby è uno sport migliore e non minore.

Con queste premesse risulta chiaro il perché non li abbiamo mai sconfitti. MAI.

Un dato che rimarrà tale per sempre. Anche se dovessimo batterli.

Francesco Costantino Ciampa

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