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Editor: Russell Icke
THE FOURTH ISSUE
THE FOURTH ISSUE
Il rugby e l'Irlanda, magia vera
SIX NATIONS
di Francesco Costantino Ciampa
Torna il Six Nations: Italia vs Irlanda. Ricordo di un ovale verde che fugge la retorica dentro il campo, ma poi costruisce le proprie leggende grazie alla sua gente.
Io ho sposato il rugby, nel vero senso della parola. E anche se oggi vivo questo sport con infastidito distacco, non posso dimenticare che senza di esso non avrei mai conosciuto l’unica persona che conti veramente nella mia vita: Annalisa.
Mia moglie è figlia di un giocatore scudettato in quel di Rovigo e sorella di chi, quella Rugby Rovigo, l’ha presieduta. Il suo adorato nonno materno, Arrigo, è stato uno dei pionieri della squadra rosso-blu, oltre che apprezzato arbitro. In questo contesto fortemente ovalizzato è risultato normale, quanto assurdo (lei odiava il rugby!), incontrarci. E innamorarci. Specie in Irlanda. Andiamo con ordine.
Nel 2013 si gioca la finale di Heineken Cup tra due squadre francesi in quel dell’Aviva Stadium, a Dublino. Siamo andati, of course. Perché volevo portarla nell’isola in cui ero già stato mille volte. E perché volevo chiederle di sposarmi. Il pomeriggio di quel 13 maggio abbiamo preso il trenino che ti porta nella pancia di uno stadio moderno, degno figlio del leggendario, e rimpiazzato, Lansdowne Road.
In campo Clermont Ferrand e Toulon, la partita più bella che abbia mai visto in vita mia. E ne ho bazzicate parecchie. Un’intensità selvaggia, un rigore mai più visto, la totale assenza di errori alla mano. Senza in avanti, pochissime mischie, touche perfette. E Jonny Wilkinson. E Morgan Parra. E Brock James. E Carl Hayman. Per chi non se lo ricordasse, la vittoria arrise al Toulon 16-15 con David Skrela che sbaglia il calcio del sorpasso a un minuto dalla fine.
Siamo usciti da quel gioiello volando, negli occhi il meglio del meglio in termini rugbistici. Abbiamo ripreso il nostro trenino e siamo tornati ad Howth, dove avevamo preso alloggio. Beh… Howth è un sogno, piccolo borgo marinaresco che è diventato sobborgo di Dublino. Di fronte al porto si vede l’isolotto di Ireland’s Eye con i resti di una torre e di una chiesa a sporcare i colori giallastri di metà maggio. Nel tratto di mare coperto dalla nostra vista nuotano foche immense, furbe e golose di quel pesce eliminato nella lavorazione ittica dei locali. In questo contesto, su quella banchina, nel buio illuminato dal faro di Baily ho frugato nella mia tasca estraendo l’anello. Un circolo di metallo sormontato da due orecchie di coniglio. Facile pensare alla paura di quel gesto insano, più difficile spiegare un oggetto simbolo della nostra scanzonata follia. Lo voleva lei, dopo averlo visto in un negozio di Verona. «Se mai dovessi chiedermelo vorrei che lo facessi con questo».
Detto, fatto.
In un istante il gesto più intelligente della mia sgangherata vita.
Di fronte all’Oceano.
Dopo una partita di rugby e prima di una cena a base di halibut e vino (pessimo) australiano.
Per me l’Irlanda è soprattutto questa.
Anche se non dimentico i venti giorni passati a Belfast per i Mondiali Under 19 del 2007. Ora, Belfast non ha bisogno di grandi presentazioni dal punto di vista storico-politico. Quindi direi di concentrarci sul rugby. Impossibile farlo, specie parlando di quella città. Il 5 aprile di quell’anno (ho dovuto controllare, mi ricordo poco) ero a Ravenhill per l’esordio dell’Irlanda nel torneo, avversario l’Australia. Lo stadio non aveva molto a che vedere con gli attuali lavori di miglioria (gli hanno messo mano due volte, nel 2009 e nel 2012) e, all’epoca, era veramente affascinante nella sua vetusta scomodità. Tutto legno, o quasi. La partita era, sulla carta, segnata: troppo forti gli ospiti. Inno australiano e inno irlandese. E qui, magia vera. Era la prima volta nella storia che suonavano le note di Ireland’s Call nella città di Belfast. La prima volta in assoluto. La prima volta che si cantavano le parole scritte per l’inno della Nazionale irlandese di rugby. Una Nazionale che ha la caratteristica di riunire tutte le province dell’Isola, anche il britannico Ulster. Io ho ancora la pelle d’oca ripensandoci.
Quella sera andò in scena uno degli eventi più simbolici della storia locale, tutto grazie al rugby. Quella sera erano veramente tutti irlandesi. Tutti. Mi ricordo le lacrime della gente, volti bagnati dalla pioggia e dell’emozione. Cristo, mi commuovo ancora oggi.
Questo sport maledetto fugge la retorica dentro il campo ma poi costruisce le proprie leggende grazie alla sua gente.
Sono stato a Thomond Park di Limerick dove il silenzio del pubblico è tale da farti sentire il colpo di tomaia durante i calci piazzati ma, se parliamo di solo rugby, non mi sono mai emozionato come quella sera a Belfast. Percepivo la speranza, la fiducia. La pace. In una città sconvolta dalla morte, segnata da murales che sono un inno alla guerra e al conflitto religioso. Ho attraversato Shankill Road lambendo i quartieri di Lower Shankill, Woodvale e Highfield per respirare l’anima protestante e la fedeltà alla Corona. Ho camminato per Falls Road incontrando le case di Clonard, Beechmount e Ballymurphy per capire cosa vuol dire essere irlandesi.
Ma solo quella sera mi è mancato il fiato. Solo quella sera a Ravenhill, per una partita di rugby.
Francesco Costantino Ciampa