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Cornamuse a Edimburgo

SIX NATIONS

di Francesco Costantino Ciampa

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Il rugby scozzese è pura battaglia di trincea condito da note musicali soffiate dentro le cornamusa. Sabato a Murrayfield comincia il Sei Nazioni dell’Italia.

«Siete scozzesi? Mi date un passaggio allo stadio?». È cominciato tutto così, per quanto mi riguarda.

Ho scroccato un viaggio in taxi a due giornalisti color tartan per raggiungere il Battaglini. Un colpo da maestro se parliamo di leggendaria oculatezza, una richiesta inutile se guardiamo la distanza che divide il Battaglini dalla stazione di Rovigo. Era il 18 dicembre 1993, avevo sedici anni e sbagliai treno in quel di Padova salendo su un Inter City invece che sul canonico regionale. Risultato? Bruciati i soldi per tornare a casa. Poco male, passato il secondo tempo a scrutare facce amiche sugli spalti, dopo il match riuscii a saltare su un pullman diretto a Calvisano.

In campo si giocava contro la Scozia. Era ancora tempo di scarso riconoscimento per il nostro rugby e le partecipanti all’allora Cinque Nazioni ci mandavano squadre titolari camuffate da riserve. Tutto per non riconoscere il cap, ergo la sacralità del test match. Quell’Italia vinse perché era forte, chiedendo a gran voce un posto al tavolo dei grandi.

 

Da allora la mia Scozia si è arricchita di mille capitoli, alcuni leggendari e altri umilianti. Dal Flaminio di Roma all’Olimpico restando qui da noi. Ma, soprattutto, a Murrayfield. Nell’estate del 1995 ho costretto mio padre a portarmi in quello stadio per la prima volta. Non si giocava ma il custode, vedendo questo italiano eccitato accompagnato da un italiano rassegnato, aprì comunque le porte del Tempio raccontando storie e aneddoti che il mio pessimo inglese non ha conservato nella memoria. Ricordo solo l’indicazione del palco reale, quello in cui siede la principessa Anna, già allora presidentessa onoraria della federazione scozzese di rugby.

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Nel 2009 gli Azzurri presero una bella ripassata (26-6) e l’allora allenatore Nick Mallet s’incazzò parecchio col sottoscritto quando gli chiesi se non fosse il caso di rassegnare le dimissioni. Erano stagioni in cui l’Italia sembrava sempre sul punto di spiccare il volo per poi trovarsi a terra con le ossa rotta. Dei miei viaggi a Edimburgo ricordo zuppe e tortini di carne, la sala stampa era immersa in questi odori che potevano sembrare puzze ma che, per un lupo affamato, erano profumi. Loro sono sempre stati gentili, quasi gioviali. Gli scozzesi sono diversi dagli inglesi. Per questo li odiano così tanto. Sono professionali ma mai autoreferenziali. Sono pochissimi ed è per questo che ogni tanto vince l’Italia. Il loro stadio è un sogno, intorno c’è verde e fiori di cardo. Il loro stadio è il teatro della Partita di rugby per eccellenza. Chi ama questo sport deve mettere in conto almeno uno Scozia-Inghilterra nella vita. Magari quella dell’8 marzo 2009 quando ho visto Paterson prendere a calci i Bianchi sotto un diluvio senza senso, con la gente che beveva birra mista ad acqua cantando e spingendo verso l’impossibile gli uomini in Blu. La stessa Scozia che avrebbe poi perso con l’Italia sette giorni dopo l’impresa realizzata.

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La mia Scozia è anche Heineken Cup prima maniera, quella in cui le squadre italiane provavano a vincere qualche partita. Magari proprio a Glasgow, contro i Warriors. Il tutto sul prato del Firhill Stadium, costruito nel 1909 e gestito dal Patrick Thistle Football Club. Anche qui zuppe iperproteiche e tortini di carne. E patate. Il tutto in una città più viva e divertente rispetto alla cara, vecchia, Edimburgo. Dove, per inciso, ho comprato ben due Barbour perché, in tempi non sospetti, i prezzi erano molto più bassi rispetto a quelli dell’Italia.

 

Il rugby scozzese è pura battaglia di trincea condito da note musicali soffiate dentro le cornamusa. Non è retorica. Se dovessimo stilare una classifica dei migliori inni del mondo, Flowers of Scotland sarebbe nelle primissime posizioni. Se dovessimo stilare una classifica degli inni più emozionanti del Sei Nazioni, Flowers of Scotland se la giocherebbe alla pari con tutti. A esclusione di un Fratelli d’Italia che proprio non scalda. Questione di gusti personali.

Io lo sento ancora quel profumo di erba appena tagliata, le sento quelle note, le vedo quelle facce rubizze avvolte in kilt variopinti. Io che sono stato a Invernees e a Stirling, sempre inseguendo l’ovale. Io che ho visto facce deluse perché “dai, come si fa a non vincere con la Scozia?”. Io che guardavo queste facce e non avevo voce per spiegare come questi si dilettino con la vescica di maiale da quando Sir Webb Ellis decise di prendere in mano la palla e inventarsi un gioco. E che, magari, potrai anche fare più punti di loro in qualche occasione ma, in termini di cultura ovale, non li batterai mai. Mai. Amen.

P.S. Lo scrivo per i puristi del gioco e non per i presuntuosi avventizi. Il cucchiaio di legno viene assegnato alla squadra che arriva ultima nel Sei Nazioni. Secondo una bislacca versione francese, invece, il simbolico oggetto sarebbe da attribuire a chi non vince neppure una partita nel Torneo. Ovviamente gli italiani, dal basso della loro pochezza competitiva, hanno fatto propria la versione francese per non caricare i propri ultimi posti di ulteriore infamia. Per la cronaca, gli anglosassoni (che hanno inventato il rugby…) chiamano whitewash il percorso con zero vittorie, un cammino a cui, ovviamente, si aggiunge anche il Wooden Spoon.

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Francesco Costantino Ciampa

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