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Air Jordan, le origini
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Come l'intuizione di uno sconosciuto italoamericano ha cambiato la storia delle sponsorizzazioni nel basket. E in tutto lo sport.

Non una folgorazione sulla via di Damasco, bensì un paio di Air Jordan ha cambiato la storia del basket.

Absit iniuria: Saulo, feroce persecutore dei primi Cristiani, divenne Paolo di Tarso quando, chiamato da Gesù, fu scaraventato a terra dal suo cavallo per essere, poi, il più fervente divulgatore del messaggio di redenzione portato dal Cristianesimo. Michael Jordan, invece, fece un viaggio alla sede della Nike di Beaverton, nell’Oregon, per trasformarsi nello spot vivente di un marchio che, con lui, ha preso il comando dell’abbigliamento sportivo mondiale. Nel 1984, in realtà, la percezione di quel che sarebbe accaduto, una volta firmato il contratto con lo “swoosh”, non poteva che essere vaga. A non esserlo, all’opposto, era la dimensione del talento di quella guardia che aveva stravolto il college basketball, alla North Carolina University, l’alto magistero tenuto da Dean Smith, seminale coach che aveva forgiato MJ.

Sempre in quell’anno si tennero le Olimpiadi di Los Angeles, con l’oro della pallacanestro che andò, e qui siamo all’ovvietà, agli USA (niente di nuovo, tanto più in un’edizione dei Giochi contraddistinta dal contro-boicottaggio dei Paesi del blocco sovietico, dopo che gli Stati Uniti e, con declinazioni diverse, le nazioni alleate, avevano adottato analogo comportamento per Mosca 1980). Jordan era già una celebrità.

Un suo tiro a fil di sirena aveva consegnato ai Tar Heels di North Carolina la vittoria nella finale NCAA del 1982 con Georgetown, a New Orleans. A Los Angeles si mette al collo la medaglia d’oro, capeggiando una squadra guidata dalla panchina da Bobby Knight, l’altra metà del cielo, quanto ad allenatori universitari. Tanto Smith è empatico, altrettanto Knight è severo e cammina sul confine del dispotico: a Indiana ha costruito campioni epici, come Larry Bird, ed è noto per essere restio a formulare complimenti a favore dei giocatori. Tuttavia, per Jordan, farà eccezione, confidando a qualche interlocutore privilegiato di essere certo della grandezza cui lo riteneva destinato. Non si sbagliava, ma prima di lui se n’era accorto Smith, che aveva consigliato a Jordan di passare professionista con un anno di anticipo rispetto al termine prefissato dal cursus universitario, e con lui la Nike, che aveva messo gli occhi addosso a quella che, ne erano certi i dirigenti dell’azienda, sarebbe stata la prossima – e definitiva – big thing dell’NBA.

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Il 1984, dunque, è il punto di svolta per la connessione tra campioni dello sport, sponsorizzazioni e, di conseguenza, affari. Jordan, al draft, viene scelto dai Chicago Bulls. Alla Nike c’è un responsabile commerciale dall’ampia visione, Sonny Vaccaro. Il suo pallino è Jordan, e per arrivarci utilizza un tramite speciale: George Raveling, assistente di Knight alle Olimpiadi e coach di Iowa University, squadra che già veste Nike. Fissano un appuntamento con Jordan, che pure è titubante, perché vorrebbe legarsi ad altri brand. L’Adidas, intanto, per le cui tute va matto, e poi la Converse, la marca associata a Julius Erving, il suo mito, il leggendario Doctor J dei Philadelphia 76ers, il giocatore più spettacolare della NBA, fonte d’ispirazione per MJ. La Nike, al tempo, si sta espandendo, ma è distante dal ruolo di leader che acquisirà in seguito. Se c’è un uomo che ha contribuito alla prima notorietà dell’azienda è proprio Vaccaro: soltanto lui può convincere Jordan a fare una scelta diversa da quella che ha in testa.

 

Questo italo-americano dai tratti caratteristici ha la chiave per aprire ogni scatola. Roland Lazenby, nel suo libro “Michael Jordan, la vita”, lo descrive così: “ La prima volta che i legali della Nike incontrarono Sonny Vaccaro si domandarono se fosse un esponente della mafia. Di sicuro il look poteva trarre in inganno, così come il nome, l’accento, i modi stravaganti e soprattutto quell’aria di uno che sembrava conoscere segreti e cose che le persone normali non possono sapere. Michael Jordan ebbe la stessa impressione quando si sedette per la prima volta al tavolo insieme a quell’italiano tracagnotto con gli occhi da cane bastonato. «Non sono sicuro di voler avere a che fare con un tipo così losco» ammise di aver pensato Jordan. Gli piaceva l’idea che la gente potesse pensare che aveva degli “agganci”: in affari, tutto può tornarti utile”. Se n’era convinto per primo Rob Strasser, uno dei principali manager della Nike. I metodi di Vaccaro erano, per l’epoca, bizzarri. Girava a bordo campo, durante le partite, e poi parlava con i coach o con i giocatori. Offriva loro dei soldi per indossare le scarpe con il “baffo”. Quando su “Sports Illustrated” fu pubblicata la foto di Bird con ai piedi un paio di Nike, la credibilità di Vaccaro si impennò. Presente alla partita di New Orleans contro Georgetown, la visione che ebbe Vaccaro fu immediata: Jordan doveva essere l’ambasciatore della Nike, il campione che avrebbe portato alla grandezza planetaria il marchio.

Quell’apparentemente goffo omino, che era stato assunto per una paga iniziale di 500 dollari al mese, aveva visto la Luce com’era accaduto a John Belushi nell’indimenticabile scena di “The Blues Brothers” in cui Jake ascolta il sermone del reverendo Cleophus James (alias James Brown). Così, saputo che a Beaverton avevano deciso di stanziare due milioni e mezzo da investire su una lista di giocatori in uscita dal draft del 1984, Vaccaro si impuntò: “L’idea di distribuire il budget su una serie di giovani, nel pieno del draft del 1984, aveva la sua logica: “Non lo fate!” disse. “Date tutto a quel ragazzo. Date tutto a Jordan”, scrive Lazenby. Alla Nike si fidarono dell’intuito di Vaccaro e gli diedero il via libera. Restava da persuadere Jordan che quella sarebbe stata la scelta migliore per lui.

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La trattativa fu complessa, estenuante, e rientra, per gli studenti di marketing, nel paradigma stesso delle capacità che un genio del settore dovrebbe avere. Vaccaro seppe costruire con Michael un rapporto diretto. Gli fece intravedere un futuro di successo e ricchezza, legato non soltanto ai Bulls, ma anche alla Nike. La prima volta che si incontrarono, Jordan non voleva saperne di chiudere un accordo con una marca che, per lui, era pressoché sconosciuta. Fu con il dialogo che Vaccaro ne conquistò l’attenzione. Le parole che aveva usato per ottenere il consenso all’operazione dai vertici della Nike, l’idea di puntare tutto su un solo giocatore, mossero qualcosa dentro MJ. L’offerta era monumentale, esagerata. Tremendamente rischiosa. Un azzardo che passava per un tavolo da gioco decisivo a Beaverton. Nella riunione che si tenne nella tarda estate del 1984, apparecchiata da Vaccaro, entrarono in scena le figure che determinarono una decisione che avrebbe rivoluzionato la commercializzazione dello sport: Phil Knight, presidente della Nike, e Deloris Jordan, la mamma di Michael. Fu lei a discutere ogni dettaglio dell’accordo. A scaldarle il cuore, più di Knight, fu, di nuovo Vaccaro, che le spiegò quanto fossero pronti a rischiare: “Il nostro budget lo diamo a suo figlio, tutto quanto. Ci giochiamo l’esistenza di quest’azienda. Se Michael non è con noi, falliremo”. Deloris avvertì la sensazione di essere entrata in una famiglia allargata. MJ ascoltava con devozione ogni cosa che dicesse sua madre. Il consenso alla Nike era un atto dovuto, a quel punto. E così fu.

Jordan fu subito un marchio. Venne disegnata e messa in produzione una scarpa creata appositamente per lui. Su ogni scatola venduta Michael otteneva il 25% del prezzo. Vaccaro aveva compreso un aspetto essenziale della personalità di Jordan: aveva un carisma enorme. Quest’aspetto, persino più di quel che avrebbe fatto sul campo, faceva da garanzia al successo dell’operazione commerciale su cui avevano puntata.  Non serve ricordare che cos’abbia rappresentato per la NBA Jordan, come la lega sia esplosa, negli anni ’90, prima di tutto grazie a lui e a dei gesti che sono divenuti emblemi generazionali, dalla linguaccia in poi. Ancor di più, invece, occorre rimarcare quanto MJ abbia esteso il proprio impatto comunicativo all’esterno del basket. Fuoriclasse di ogni disciplina hanno avuto in lui un riferimento, un esempio da seguire con cura dogmatica.

La Air Jordan, quella scarpa uscita nel 1985, si è tramutata in un’icona di stile, in un Graal per qualsiasi ragazzino, in ogni angolo del pianeta Terra, si avvicini per la prima volta ad un playground. Tre anni dopo il Jordan Brand ebbe una traduzione visiva nel “Jumpman”, il ritratto della silhouette di Michael che vola alto prima di piazzare una delle sue proverbiali schiacciate. Niente sarebbe stato più come prima. Il marketing era stato ribaltato da Sonny Vaccaro e da chi, alla Nike, a partire da Strasser e Knight, aveva “osato” dargli retta. Lo stile di vita di Jordan ha iniziato a divenire un modo di essere. La sua straordinaria carriera, passata anche per il sorprendente ritiro dalla pallacanestro per cimentarsi nel baseball, un’antica passione, ha portato i Bulls – che al suo arrivo erano un franchigia in disarmo – a essere sinonimo di vittoria. La stessa equazione, ovvero Jordan-Chicago, vale cambiando i termini del binomio: MJ-Nike. Ovvero, un marchio globale.

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Generazioni di appassionati pensano a Michael per la sua partecipazione a “Space Jam”, il film d’animazione della Warner Bros in cui Jordan interagisce con dei personaggi dei cartoni animati amatissimi, i Looney Tunes, a cominciare da Bugs Bunny. Altri non dimenticano che in “He got game”, strepitosa pellicola di Spike Lee con Denzel Washington, MJ diede vita a un cameo, mentre Ray Allen, allora (era il 1998) guardia dei Milwaukee Bucks, recita da protagonista, nella parte di Jesus Shuttlesworth, e gioca con le Jordan 13, la versione di quell’anno delle Air. Lo stesso Spike Lee, tra l’altro, è uno dei testimonial del Jordan Brand, che ha vestito diversi atleti, specialmente da quando Michael ha lasciato la scena agonistica, dedicandosi più sistematicamente alla relazione d’affari con Nike. Oltre ad Allen, sono stati “griffati” da lui Carmelo Anthony, Jason Williams e Russell Westbrook.

Ma il “Jumpman” ha conquistato anche il calcio ai più alti livelli: il Paris Saint-Germain ha come sponsor tecnico la Nike. Neymar è un ambassador del Jordan Brand. Da qui è nata un’idea che ha fatto storcere il naso a molti, per il solare contrasto con il tratto identitario del pallone, ma che è stata presa a riferimento per i cultori del marketing, per cui la logica principale si traduce nei revenues, i ricavi da far affluire in azienda, arrivando a prescindere il risultato dal campo per massimizzare le entrate commerciali. Per la Champions League di questa stagione, infatti, la Nike ha impresso sulla maglia del PSG il “Jumpman”, al posto dello “swoosh”, mettendo in vendita una collezione che ha impattato in maniera massiccia sull’acquisto delle divise della squadra. Tutto molto americano e poco europeo, già, e d’altro canto la Champions inizia ad avere delle connessioni con la NBA, con la NFL, la MLB e la NHL.

 

C’è da chiedersi se sarebbe andata così se Sonny Vaccaro non avesse avuto quell’illuminazione a New Orleans, o se la signora Deloris Jordan non avesse detto a suo figlio, a Beaverton, di firmare con la Nike. Di fatto, quel giorno in Oregon, non solamente la pallacanestro è andata incontro a un rovesciamento copernicano, ma tutto lo sport: lo showbiz è nato allora. Che poi abbia fatto più male che bene, è questione da lasciare ai sociologi. A leccarsi i baffi (nessun riferimento a quello della Nike…), di sicuro, sono stati i tanti che ci hanno fatto una montagna di soldi, a cominciare dai giocatori: pagassero le royalties a Jordan, il sultano del Brunei potrebbe non essere più l’uomo più ricco del mondo.

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