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Succede solo in America!
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Domenica va in scena il Super Bowl. Ma un’eco politica rischia per la prima volta di sconvolgere il più grande spettacolo made in USA.

Prendete la finale di Champions League e moltiplicatela per dieci volte. C’è soltanto un avvenimento sportivo al mondo capace di produrre un impatto simile: è il Super Bowl. Il football americano ha tratti diversi e distinti dagli altri sport più prettamente USA, dal baseball al basket NBA, per passare all’hockey della NHL. Incarna lo spirito più ruvido e competitivo del Paese. Ha ispirato film paradigmatici, da “Quella sporca ultima meta” a “Ogni maledetta domenica”, facendo da filo di congiunzione nella sceneggiatura di un capolavoro come “Il paradiso può attendere”. È brusco, violento e feroce, creativo e distruttivo. Il grande giornalista sportivo e scrittore Hunter S. Thompson l’ha definito così: “Nessuna pietà e niente seconde possibilità”. L’ultima scena della NFL, la lega professionistica che riunisce le franchigie che ne disegnano il territorio, è l’appuntamento che, più di ogni altro, ferma l’America. Domenica prossima, al Mercedes-Benz Stadium di Atlanta, futuristico impianto inaugurato nel 2017, a sfidarsi nel cinquantatreesimo Super Bowl saranno i Los Angeles Rams e i New Englands Patriots. Soltanto negli Stati Uniti è prevista un’audience televisiva di 100 milioni di persone. Eppure c’è qualcosa che va persino oltre la partita: è l’halftime show.
 

Un palco montato e smontato a tempo di record, durante l’intervallo della sfida. Un quarto d’ora per un set che guarderà il mondo intero. Per un musicista, per una band, essere scelto per l’Evento equivale a vincere un Grammy. Sono entrate nella narrazione recente del Super Bowl le esibizioni di Lady Gaga e di Katy Perry, come già è accaduto in passato per Prince, per Bruce Springsteen, per  i Rolling Stones, gli Aerosmith e gli U2. Chi rinuncerebbe a quella che rappresenta la consacrazione in un Empireo riservato a degli eletti, ai Chiamati? Non è una questione di soldi, bensì della possibilità di ottenere l’ingresso in una Hall of Fame che va oltre le infinite copie di dischi già vendute o i concerti tenuti in ogni angolo del pianeta Terra. L’halftime show è il più grande degli spettacoli, ed “esserci” proietta un artista in una sfera che sconfina nel soprannaturale. Per il Super Bowl di quest’anno, però, è successo l’imponderabile: è arrivato chi ha detto di no. Jay-Z ci aveva già dedicato un verso della sua canzone “Apeshit”, interpretata da Beyoncé, la sua splendida compagna: “I said no to the Super Bowl/You need me, i don’t need you”. Quel no, per Atlanta, l’ha scandito Rihanna, e con lei Cardi B. Il sì l’avevano già pronunciato i Maroon 5, ma trovare dei partner da inserire in scaletta  è stato, per l’organizzazione, un impegno faticoso e controverso. Se, in accordo con la disamina di Maeve McDermott per “USA Today” l’halftime show non è più un’istituzione culturale, molto dipende da un giocatore di football americano che si chiama Colin Kaepernick.

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Quarterback di discreto valore con i San Francisco 49ers, Kaepernick ha spaccato l’opinione pubblica americana quando, nel 2016, iniziò a restare seduto, e in seguito a inginocchiarsi, durante l’esecuzione dell’inno nazionale, che per inviolata consuetudine viene ascoltato sull’attenti prima delle partite. Kaepernick disse, parlando con NFL Media: “Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca”. La protesta di Kaepernick, afroamericano, connessa alla piattaforma Black Lives Matter, ha spalancato la via a una battaglia che ha scatenato il risentimento di Donald Trump, che a suon di tweet ha attaccato Kaepernick e i molti atleti che hanno imitato la sua presa di posizione. L’onda si è allungata al mondo dello spettacolo. La comunità della musica, in particolare, si è schierata con Kaepernick – che, restato poi senza contratto, non ha più trovato un ingaggio, fatto che ha suscitato dubbi sulle motivazioni della sua esclusione, parsa “pilotata” – e con il movimento che l’ha seguito. Così, a essere coinvolto nella marea montante che ha invaso la NFL, vista quale appendice nello sport del “trumpismo”, è stato anche l’halftime show.  Le perplessità erano scaturite già con la scelta di puntare per l’Evento sui Maroon 5, un gruppo pop, visto che la partita si gioca ad Atlanta, una città che è la capitale dell’hip-hop, la rumorosa culla degli Outkast, di Killer Mike, dei Future e Childish Gambino, ma il vero punto di rottura è legato all’avversità alle celebrazioni patriottiche che contornano il Super Bowl. Le parole scritte da Jay-Z si sono espanse divenendo un manifesto morale. Infine, ad accettare la proposta per il concerto dell’intervallo sono stati Big Boi degli Outkast e il rapper Travis Scott. Fine della vicenda? Neanche per idea. L’attivista Vic Oyedeji, impegnato con la piattaforma Unstrippedvoice, realtà che sviluppa programmi per la giustizia sociale, ha chiesto ai performers che saranno sul palco del Mercedes-Benz Stadium di inginocchiarsi, eseguendo il cosiddetto kneeling, l’atto reso noto da Kaepernick. Sono state lanciate attraverso il sito www.change.org due petizioni, una per chiedere ai Maroon 5 di declinare l’offerta di partecipare all’halftime show, la seconda, appunto, per invitare tutti i protagonisti al kneeling. In entrambi i casi, le firme raccolte sono state decine di migliaia.

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Appare, in questo senso, assiomatica la tesi formulata dalla McDermott. Se anche il meeting televisivo più atteso dell’anno viene messo in discussione ed è oggetto di boicottaggio, il suo ruolo di fattore cogente per il pubblico statunitense risulta affievolito. D’altro canto, quando Travis Scott ha deciso di essere presente, annunciando che il suo assenso sarebbe stato subordinato al versamento di 500mila dollari da parte della NFL a Dream Corps, un organismo che si batte per l’integrazione e il progresso nella società americana, è stato criticato da altri due rapper, T.I. e Nick Cannon. Kaepernick ha fatto sapere che Scott non l’aveva mai interpellato per domandargli che cosa pensasse del suo intervento. Mai come domenica, quindi, gli occhi di tutti gli spettatori saranno in attesa non solo di quel che accadrà sull’erba sintetica dell’imponente stadio di Atlanta. Se a elettrizzare sarà il duello generazionale tra i due quarterback, Tom Brady, quarantunenne fuoriclasse dei Patriots – un campione che di Super Bowl ne ha vinti cinque e che è famoso anche per essere il marito di Gisele Bündchen – e Jared Goff, che di anni ne ha ventiquattro e ha trascinato i Rams a una finale da cui mancavano dal 2001, quando scatterà l’halftime show lo spettacolo avrà un’eco politica che potrebbe sconvolgere il poderoso business della NFL. Neanche un touchdown è per sempre.

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