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"Ski to die" 
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Bill Johnson era uno allergico alle regole, uno matto, uno disposto a rischiare l’osso del collo sulle piste da sci. Vi si lanciava a ritmi di rock ’n’ roll, erano la sua Route 66.

Febbraio 1984: è tutto pronto a Sarajevo per la prima olimpiade invernale in un paese dell’Europa comunista.

Manca solo un piccolo dettaglio, la neve.

Gli organizzatori fanno gli scongiuri, e quando finalmente i fiocchi cadono copiosi come una benedizione dal cielo la notte prima della cerimonia di apertura, i leader jugoslavi arrivano a ringraziare persino Dio. Proprio loro, atei ortodossi.

Il pendio sul Monte Bjelasnica ospita la gara più attesa, la discesa libera maschile. Una pista bellissima invitante alla velocità; lunga, larga, scorrevole nella parte iniziale, tecnica e piena di ondulazioni e salti da brivido nella seconda.

Neve, nebbia e gelo siberiano a -25°c  sconvolgono l’agenda del programma.

La discesa viene posticipata di parecchi giorni; un attesa snervante per i gli atleti costretti a girarsi i pollici al villaggio olimpico. La partita se dovrebbero giocare gli austriaci Resch, Hoeflener, Steiner e ovviamente Franz Klammer, che a dispetto del tramonto sulla sua leggendaria carriera pochi giorni prima a Kitzbuhel ha colto una stupefacente vittoria (la quarta sulla Streif) nel delirio di migliaia di tifosi austriaci, e gli svizzeri Peter Muller e Pirmin Zurbriggen.

Curiosità desta uno scanzonato ragazzotto californiano. Si chiama Bill Johnson, ventitreenne di Los Angeles capace di vincere poche settimane prima la sua prima discesa libera di coppa del mondo sulla Lauberhorn di Wengen. Un tipo un po’ matto, fuori dagli schemi e allergico alle regole, con un adolescenza a dir poco turbolenta alle spalle. A 17 anni ruba auto e s’intrufola negli appartamenti. Quando lo beccano il giudice lo mette davanti a due possibilità: il carcere o il college.

Sceglie ovviamente la seconda e si trasferisce al Wenatchee Valley Community College nello Stato di Washington.

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Bill sugli sci ci sa fare sin da quando a sette anni ha imparato a condurli sulle nevi dell’Idaho e così entra nel Mission Ridge Race Ski Team. Disposto a rischiare l’osso del collo, ottiene buoni risultati, i tecnici della nazionale americana si accorgono di lui e una nuova vita sugli sci ha inizio. A Sarajevo ha fatto registrare il miglior tempo in prova.

Nel circo bianco Bill non ha fama di simpaticone: se la fa per conto suo e i suoi modi da spaccone non gli attirano le simpatie dei colleghi. Dicono che tanto quel tipo lì, sciando in quel modo spericolato prima o poi si spaccherà in quattro.

La cosa non gli fa un baffo. 

Lui va per la sua strada, le piste da sci sono la sua Route 66 dove lanciarsi a ritmi di rock ‘n roll. A Bjelasnica li mette tutti in riga costruendo il suo capolavoro nella seconda parte del tracciato dove mette più fegato di chiunque altro. Peter Muller e Anton Steiner completano il podio. Bill Johnson è il primo sciatore americano a mettersi al collo una medaglia d’oro alle olimpiadi. In pieno stato di grazia, vince quell’anno altre due gare di coppa del mondo, la prima ad Aspen e la seconda a Whistler.

Saranno però le ultime, perché da lì iniziano tutti i suoi guai.

È il crocevia che tramuta la favola in dramma. Complice un infortunio al ginocchio non saprà più ripetersi; litiga con tutti, lo cacciano dalla nazionale, non riesce nemmeno a qualificarsi per difendere il titolo ai Giochi di Calgary del 1988.

Si ritira nel 1990 a trent’anni.

Ma le cattive stelle non lo abbandonano, anzi.

Nel 1992 suo figlio di tredici mesi Ryan perde la vita annegando in una vasca di idromassaggio.

Il matrimonio si chiude in maniera burrascosa; col divorzio, sua moglie porta via con sé gli altri due figli Tyler e Nick. 

Bill rimane solo, senza il becco di un quattrino.

Vive con sua madre, ma non rinuncia a riconquistare l’amore di sua moglie. E così decide di stupire tutti e ritornare alla gare con la pazza idea di presentarsi a 41 anni suonati al cancelletto delle olimpiadi di Salt Lake City del 2002. Quando spiega la cosa al presidente dell’US Ski Team Bill Marolt, questi gli risponde: «Sei fantastico Bill, procurati un punteggio e farai l’olimpiade». Si fa persino tatuare la frase «ski to die» sul braccio. La sua rincorsa olimpica dura tuttavia poco. Nel 2001 ai campionati americani di Whitefish in Montana cade rovinosamente in prova e sbatte violentemente contro un blocco di ghiaccio: rimane in coma tre settimane rimediando danni permanenti al cervello che gli causano la perdita parziale della memoria e difficoltà espressive. Bill Marolt gli rimane vicino e a Salt Lake ce lo manda comunque. Alla cerimonia di apertura Bill porta la torcia olimpica insieme a Phil Mahre nel tripudio dello stadio. Una luce nel buio, perché la piovra della mala sorte non si dimentica di lui e non allenta la presa dei suoi tentacoli. Le cose precipitano definitivamente nel 2010 quando Bill è vittima di un ictus che lo costringe all’infermità procurandogli la paralisi della mano destra e la perdita della vista dall’occhio sinistro.

Parla a sussurri, fatica persino ad alimentarsi.

L’unico piacere che gli è rimasto è una sana boccata di Marlboro. Il resto è solo un tormento che trova fine il 21 gennaio del 2016 nella casa di Gresham in Oregon dove Bill vive sotto assistenza.

È l’ultima curva nella parabola di  Bill Johnson, l’ uomo che volle sciare fino a morire.

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