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Il capolavoro di Leonard
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Kawhi Leonard è un ragazzo umile che viene da una vita di lotta, di resilienza, di coraggio. E' sua la firma dal tratto deciso e ammaliante sul capolavoro dei Toronto Raptors, capaci di ribaltare i Bucks di Giannis. Da giovedì Leonard guiderà Toronto nelle Finals per l'anello. Davanti ci saranno i Golden State Warriors, quasi invincibili. Ma se i Raptors sono arrivati fin qui, è perchè, come Leonard, hanno percorso una lunga strada.

Nel nome di Leonard. La firma sul capolavoro dei Toronto Raptors, capaci di ribaltare i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo, the Greek Freak, il Lestrigone che ha dominato la stagine NBA, ha un tratto deciso e ammaliante. Quello di un ragazzo che, nel nome, ha il suono di un arcipelago inondato dal sole: Kawhi. Si pronuncia Kauai, e lui viene dalla California e la sua è una vita di lotta, di resilienza, di coraggio. Kawhi Leonard non aveva ancora compiuto diciassette anni quando ha perso suo padre Mark. Era il 2008. Gli avevano sparato mentre era al lavoro nell’autolavaggio che gestiva a Compton. Da quel momento, tutto è cambiato. Sua mamma Kim disse al giovanissimo Kawhi: “Papà non c’è più. Devi farti forza”. Quelle parole le ha messe in pratica giorno dopo giorno.

Da giovedì guiderà Toronto nelle Finals per l’anello. Davanti ci saranno i Golden State Warriors, sempre senza Kevin Durant e DeMarcus Cousins, ma con gli Splash Brothers, Steph Curry e Klay Thompson, in servizio permanente effettivo. E se i Raptors sono arrivati fin qui, è perché, come Leonard, hanno percorso una lunga strada.

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In principio fu Vince Carter. Storia singolare: al draft del 1998 fu scelto proprio da Golden State, ma venne girato a Toronto in cambio di Antwan Jamison e di un pacco di soldi. Carter, a distanza di più di due decenni, non ha smesso di giocare. L’ultima annata l’ha disputata ad Atlanta, con gli Hawks. Il suo approdo in NBA fu uno spettacolo, ma non per modo di dire: uno showtime, era quello che metteva in scena in tutte le partite Carter.

Mirco Melloni, in un articolo pubblicato da "La Stampa", ricorda che per un periodo, alla fine dei Nineties, con gli appassionati che cercavano un nuovo punto di riferimento che prendesse il posto di Michael Jordan, Vince era tra i favoriti, addirittura in testa a testa con Kobe Bryant. Con il tempo le cose sono andate diversamente, ma Carter ha segnato la prima, breve epopea dei Raptors, condotti ai playoff, che in precedenza non avevano visto nemmeno di sguincio, nel 2000, anno di grazia per Vince, che conquistò la gara delle schiacciate all’All Star Game e pure l’oro olimpico con gli USA, a Sidney. A Toronto, con lui, giocava una guardia che aveva navigato a lungo tra i mari della NBA e che, in Canada, avrebbe chiuso la carriera. Il suo nome era Dell Curry. Di suo figlio Steph tutti sanno tutto, ma tanto basti per capire quanto gli incroci della sorte siano bizzarri, più che insoliti.

Kawhi Leonard, i Warrios, li sfiderà in una serie cui i Raptors si presentano con la patente obbligatoria dell’underdog. Troppo forte, troppo abituata a vincere, troppo imponente la macchina di Golden State.

Eppure il ragazzo della California ha una gran voglia di correre, come ha fatto da sempre, come gli aveva detto la mamma, quel maledetto giorno del 2008. Doveva farsi forza e non sarà certo una partita in più a fargli perdere la fede. Suo papà era stato appena ucciso e il giorno seguente Kawhi andò in campo, lui che era il talento della Martin Luther King di Riverside, per l’incontro di high school con la Compton Dominguez. Segnò 17 punti, ma la sua squadra perde. Scoppiò in un pianto dirotto, abbracciando mamma Kim. La sua salita era appena cominciata.

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Dopo che, in gara 6 delle Finals di Eastern Conference, Leonard ha trascinato i Raptors a vincere la quarta partita di fila con i Bucks, recuperando dall’iniziale 0-2 nella serie, Masaj Ujiri, il general manager di Toronto, l’uomo che più di tutti l’ha voluto in squadra, ha esclamato: "Kawhi è il miglior giocatore della NBA".

Aveva appena concluso una prestazione da 27 punti, 17 rimbalzi, 7 assist e due stoppate.

Leonard ha registrato le parole di Ujiri con una miscela di orgoglio e pacatezza e ha detto: "Prima dell’inizio della stagione, quando Toronto ha deciso di puntare su di me, Masaj mi ha più volte spiegato quali fossero le sue ragioni, le sue intenzioni e soprattutto quello che sperava potesse succedere ai Raptors le cose sono andate per il verso giusto. Siamo alle finali NBA e il nostro lavoro non è ancora terminato". Ujiri l’ha ingaggiato dopo che, nella passata stagione, aveva giocato soltanto nove partite con i San Antonio Spurs, fermato da un problema muscolare al quadricipite della gamba destra la cui entità ha causato attriti con lo staff tecnico della franchigia texana, a partire dal seminale coach Gregg Popovich. Una rottura non più sanabile, con Ujiri che, dal canto suo, non ha mai dubitato di Kawhi e non ci ha pensato due volte a metterlo sotto contratto. L’agente di Leonard è Dennis Robertson, lo zio materno. Dopo l’accesso alle Finals con Golden State, Uncle Dennis, come tutti lo conoscono nell’ambiente, ha chiarito, intervistato da Chris Haynes di Yahoo Sports: "In famiglia siamo persone umili, ci stiamo godendo la soddisfazione del momento. Qualcuno potrà parlare di una rivincita per noi, ma non è così. Abbiamo taciuto in questi mesi, abbiamo lasciato che le cose andassero da sé, che tutta la stampa negativa che Kawhi aveva ricevuto si spegnesse, in modo che potesse concentrarsi solo sul gioco. Aver centrato le prime finali NBA con i Raptors è un grande risultato, soprattutto dopo l’anno scorso".

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Leonard non ha modi e vezzi da superstar. A Toronto vive in una casa senza sfarzo. Non guida una macchina di lusso, ma un’ordinaria Chevrolet Malibu di seconda mano. Da quando perse quella partita con la Compton Dominguez ha continuato ad arrampicarsi sempre più in alto. Ha portato la Martin Luther King High School a ottenere un formidabile record di 30 vinte su 33 all’ultimo anno di liceo. Riceve il riconoscimento di Mister Basketball per la California. Al college sceglie di andare alla San Diego University, e per due volte guida la squadra alla fase nazionale del campionato NCAA. Scelto dagli Spurs, a San Antonio, è già detto da tutti "the Claw". L’Artiglio. Sfiora un titolo, cedendo nella Finals ai Miami Heat di LeBron James, ma poi lo vince, sempre contro lo stesso avversario: è il 2014. Nel 2017 il secondo anello si fa possibile. Poi, la catastrofe: Zaza Pachulia, ruvido centro di Golden State (ora è a Detroit, quindi l’incrocio non si riproporrà), con un closeout feroce, gli lesiona la caviglia sinistra. Sarà l’epilogo morale dell’esperienza a San Antonio di Kawhi: resterà fuori fino a dicembre, l’amore è finito per sempre. L’infortunio al quadricipite si allunga, i medici dicono che l’ha superato, Leonard si rifiuta di giocare e non segue neppure dalla tribuna la squadra, i tifosi lo insultano e danno alle fiamme la sua maglia.

Kawhi chiede la cessione. Aspetta i Los Angeles Lakers, ma la chiamata non c’è.

A farsi sentire, invece, è Masaj Ujiri, sono i Toronto Raptors. La lunga inattività ha depositato ruggine e polvere sui meccanismi perfetti di Leonard. La regular season va a ondate, tra grandi partite e un rendimento che non convince appieno. Prima che inizino i playoff, sono in molti a parlare di un’operazione azzardata, riferendosi all’ingaggio di Kawhi: nel trade con gli Spurs, in Texas è andato DeMar DeRozan, giocatore adorato dal pubblico di Toronto, per nove anni con il club, il campione che aveva riscritto le tavole della legge lasciate da Vince Carter. Dopo, con la montagna che si è fatta sempre più tempestata, e il pendio più erto, l’Artiglio ha ripreso a scalare.

Nessuno avrebbe scommesso più di qualche centesimo sulle chance dei Raptors di giocare le Finals, in pochi hanno temuto di Leonard. In estate Kawhi, rischio dei rischi per Toronto, potrebbe uscire dal contratto e diventare free agent. Il sogno sarebbe durato poco, mentre la fila delle franchigie che hanno mostrato interesse per l’ex prodigio dei Kings di Riverside si ingrossa. In questi playoff ha fatto cose folli. Il buzzer beater con cui ha siglato la vittoria nella decisiva partita delle semifinali della Eastern con i Sixers, con Big Jo Embiid – non esattamente un fuscello – che gli stava addosso, ha indotto i più a stropicciarsi gli occhi. L’esibizione di forza con Milwaukee ha aggiunto un altro pezzo alla strabiliante opera di un genio. Leonard, adesso, deve soltanto finire di dipingere la sua Gioconda. Kawhi gioca con la maglia numero 2, ma il numero 1 l’ha già prenotato. Golden State, che deve badare agli infortuni di Durant e Cousins, e con Andre Iguodala che non è al meglio, non gli fa paura.

Con i Warriors cominciò il suo travaglio. Adesso può uscire fuori, a riveder le stelle.

Matteo Fontana

Twitter @teofontana

Instagram @matteofontana1976
 

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