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Azumah Nelson,
il leone di Zion

RUBRICA "CAVALLI SELVAGGI"

di Matteo Fontana

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Da Accra a New York, da Zion a Babylon. La rabbia, la tenacia e il coraggio di uno dei più grandi pugili del continente africano.

Forte come un leone a Zion. Ricordate cosa cantava Bob Marley? “Iron like a lion in Zion”. Era un grido di rivolta, il richiamo all’Africa, la terra promessa è smarrita. Il leone rastafariano, l’emblema della lotta. Azumah Nelson l’ha portato fuori dal suo Ghana, fin dentro Babilonia. Ancora Marley: “Babylon system is the vampire”. Il vampiro è il sistema di Babilonia. Babylon è il mostro del capitalismo che sfrutta l’Africa. Babylon s’incarna negli Stati Uniti. Babylon è la New York di Wall Street, ma New York è anche il Madison Square Garden. Ci giocano i Knicks di basket e i Rangers nell’hockey; ha ospitato i più grandi artisti del pianeta, è un santuario dello sport e dello spettacolo. Azumah Nelson ci arriva per contendere a Salvador Sanchez il mondiale WBC dei pesi piuma: il suo nome è leggenda in Africa, ma nessuno sa chi sia a Babylon né nel resto del pianeta. Negli Stati Uniti c’è passato senza che nessuno si accorgesse di lui, ma con Sanchez, el Chava, il messicano che, come Nelson, è l’orgoglio della sua gente, è un’altra roba. Non è abituato a perdere, Azumah. Non gli è mai successo.  Per quindici round questo boxeur che ha compiuto il percorso inverso rispetto a quello che portò Muhammad Ali a Khartoum, nel 1975, per il Rumble in the Jungle con George Foreman, sotto gli occhi di Mobutu e davanti alla penna di Norman Mailer, sbalordisce l’America.

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Il 21 luglio 1982, Salvador Sanchez sconfigge Nelson per ko all’ultima ripresa. La rabbia, la tenacia e il coraggio mostrato da un fighter piovuto a New York da Accra, la capitale di un paese da cui, per secoli, sono stati portati oltre l’Atlantico migliaia di schiavi, conquista il pubblico. È un Rocky Balboa di Zion, un Buffalo Soldier. Salvador Sanchez è un pugile formidabile, tra i più amati di ogni tempo. Morirà in un incidente d’auto sulle strade del suo Messico neppure due mesi dopo quel magico incontro al Garden. Ha 23 anni. Hanno combattuto con un furore che ha sfiorato il misticismo, lui e Azumah. C’è una foto che ritrae la loro grandezza, a metà tra Don Chisciotte e i capitani di ventura. Sono uno di fronte all’altro, sul ring di New York. Sanchez, il campione, ha i pantaloncini rossi, i fianchi e la cintura bianchi. Nelson, invece, indossa un paio di Everlast giallo oro, con i lati rossi e il bordo superiore verde: sono i colori della bandiera del Ghana, e dentro di sé traducono una simbologia. Il rosso è l’emblema del sangue sparso dai patrioti per raggiungere l’indipendenza, l’oro rappresenta la ricchezza delle risorse celate nel sottosuolo, il verde il rigoglio delle foreste, la florida bellezza dei paesaggi. Su quella stessa bandiera compare anche una stella nera: è il paradigma dell’orgoglio black, della lotta al colonialismo, la tensione morale verso la liberazione. Nei pugni di Azumah rimbombano i discorsi dei grandi leader politici africani, di Patrice Lumumba, di Ahmed Sékou Touré, di Kwame Nkrumah; c’è il frastuono di un continente perduto, del deserto, ma anche delle cascate, di una rinascita tumultuosa e impedita.  Nel 1984 Nelson sarà campione del mondo sconfiggendo Wilfredo Gomez, un portoricano soprannominato “Bazooka” per la potenza dei colpi che riusciva a sferrare. Azumah lo manda al tappeto all’undicesimo round.  Gli basta una ripresa per battere, a Birmingham, Pat Cowdell, un pestatore delle West Midlands, ed è un’altra foto a trasmettere il senso della forza del leone: Nelson che, con i consueti pantaloncini con i colori del Ghana, le braccia appena allargate lungo il torso, si sposta all’angolo, mentre Cowdell è steso a terra. Un cameraman sbuca da dietro le corde e lo inquadra. L’arbitro del match, il mitico messicano Octavio Meyran, si appresta a contarlo. 

Azumah Nelson è un uragano che esce dalla boscaglia, è il brusio di Accra. Lo chiamano il Professore, oppure il Terribile Guerriero. Gli inglesi avevano già imparato a conoscerlo: a Edmonton, in Canada, aveva conquistato la medaglia d’oro nei piuma, ai Giochi del Commonwealth, la celebrazione sportiva della grandezza dell’Impero. Era il 1978, lo stesso anno in cui l’avevano scoperto ai Panafricani di Algeri: altro oro. Il re della foresta aveva appena cominciato a inoltrarsi per la via della battaglia e della gloria. Nel 1988 si prende il titolo dei superpiuma WBC, rimasto vacante. Vincerà, perderà, vincerà ancora. Dirà che l’unico avversario che avrebbe voluto incontrare di nuovo, tra tutti quelli affrontati nel corso della sua carriera, sarebbe stato Sanchez, l’antagonista che, alla sua stessa maniera, combatteva per milioni di persone che rivedevano in lui il vigore di chi rifiuta di considerare la resa.  Nel 2018 i suoi sessant’anni sono stati celebrati in Ghana con riconoscimenti degni di un Capo di Stato e le onorificenze dovute a un’autorità religiosa universale. Il leone di Zion non ha mai smesso di ruggire. 

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